
L’Italia del 2019 come la Grecia del 2015. La sfida impossibile all’Ue
Nella retorica giallo-verde il successo dei partiti di governo alle elezioni europee (in Italia) accrescerà il potere negoziale del nostro Paese sul tavolo di Bruxelles. Le intemerate sullo spread di Salvini fanno parte di questo disegno. Quanto più un governo di uno stato membro sarà forte di un consenso anti-europeo esplicito – questa è la tesi orbaniana – tanto più potrà trattare condizioni di favore per il proprio Paese con le istituzioni europee.
È l’identico schema utilizzato da Tsipras nel 2015, quando, forte del successo dell’anno precedente alle elezioni europee e del trionfo di qualche mese prima alle elezioni politiche in Grecia, il capo del governo ellenico convocò un referendum consultivo per dire NO alle richieste dell’Ue. Sappiamo come è andata a fine (fortunatamente per i Greci): con l’accettazione delle stesse misure di austerità prima orgogliosamente rifiutate, quando fu chiaro che nessuno nel mondo – neppure i cinesi, come qualcuno sperava e molti temevano – avrebbe “comprato Grecia”, mentre il paese ellenico era impegnato in una guerra senza speranza con Bruxelles.
L’Italia si trova nella medesima situazione. I dati finanziari non sono (ancora) tremendi come quelli ellenici, ma il dato comune è quello della sostanziale dipendenza del nostro Paese, per il finanziamento del suo debito, non solo da investitori stranieri, ma da un “consenso europeo” considerato essenziale dalla generalità degli investitori, anche nazionali.
L’alternativa ad un accordo non è la sfida a Bruxelles, ma l’esproprio dei redditi e dei patrimoni degli italiani, cioè l’utilizzo – via patrimoniale, via prestiti forzosi, via pagamenti di pensioni e stipendi e forniture con titoli del debito… – della ricchezza nazionale per tappare le falle del bilancio pubblico. Non esiste alcuna possibilità che la trattativa con Bruxelles finisca diversamente che con un accordo o con una resa. Tertium non datur